domenica 17 febbraio 2013

Fabrizio Mugnaini su Laudomia Bonanni


Buongiorno e buona domenica, ieri finalmente mi sono preso un giorno di svago, passeggiata al mare con pranzo a base di pesce, oggi riposo nello studio tra libri e conigliette. Sempre rimanendo in tema di letteratura femminile, poco conosciuta e per niente valorizzata, mi preme parlare di una scrittrice che, secondo me, andrebbe riletta, Laudomia Bonanni (1907 – 2002). Non ho avuto il piacere di conoscerla di persona, credo per una forma di pigrizia che ti assale quando sei giovane o perché pensi di dare delle priorità e spesso sbagli, con l’esperienza di oggi non avrei perso questa ghiotta occasione. Comunque sono felice di non averla trascurata come scrittrice leggendo gran parte dei suoi scritti, almeno quelli che ho avuto modo di procurarmi. Laudomia è sempre stata una maestra elementare, non ha mai cercato notorietà, la sua lunga esperienza a contatto del mondo giovanile è stata arricchita dalla consulenza presso il Tribunale dei minori; nonostante gli impegni ha trovato il modo di scrivere dei bellissimi romanzi che, attenti alle problematiche delle classi più umili, hanno offerto uno spaccato della società contemporanea. Il suo modo di scrivere è particolare e le tematiche che affronta la rendono unica nel panorama del ‘900 italiano. Era convinta che il maschilismo rovinasse il mondo e che era necessario abituare, dirozzare lo spirito al dolore del vivere. La prima convinzione sarà quella che la relegherà nel più profondo scantinato, senza luce e acqua, destinata a morire di stenti, sola e dimenticata. In vita la sua fama non poté passare inosservata, i suoi maggiori estimatori furono Montale, Cecchi, De Robertis, Falqui; con il “Fosso”, ottenne il premio al salotto letterario Bellonci e nel 1950 vinse, prima ed unica donna, il Premio Bagutta, con “L’imputata” nel 1960 vinse il Premio Viareggio e nel 1964 il Premio Campiello con “L’adultera”. Quando nel 1985 l’editore Bompiani rifiutò di pubblicare il suo ultimo romanzo “La rappresaglia”, posò per sempre la penna e si ritirò a vita privata. Modi da misantropa cortese, un sorriso a tutti, chiacchiere e confidenze a nessuno. Rimase solitaria, rocciosa come il Gran Sasso che nel 1907 l’aveva vista nascere ai suoi piedi. Pietro Zullino la ricorda così: “Alle sei di ogni sera una ultranovantenne piccola dal passo straordinario agile e svelto si affacciava su piazza della Balduina – scendendo dalla sua dimora al terzo piano di via Romagnoli 12 – e cominciava la sua quotidiana passeggiata di tre chilometri, per vie secondarie su su fino al giro della boscosa Villa Stuart, e ritorno. Il tabaccaio, il libraio, il fioraio, i portinai, i negozianti in genere, i bancarellari di Piazza Mazzaresi, persino i vu’ cumprà del marciapiede la conoscevano come la Grande Scrittrice”. Io mi auguro che tutti la possiamo ricordare così, gentile, novantenne senza un capello bianco e passo svelto da gazzella, promettendo di leggere e ri-leggere i suoi libri, fonte di insegnamento ed ispirazione.
La serva Colomba e il marito Titta contadino, analfabeti, strappano la vita coi denti. Riattata una casetta ai margini del paese, cercano di farsi anche un orto.
Per lungo tempo, sbrigate le faccende e preparato il cibo, non potendo più raggiungere Titta, la Colomba s’affacciò alla finestruola e stette per mezze giornate a rimirare il fosso. Così le donne chiamavano quel che Titta chiamava orto. Era in realtà un appezzamento di terreno rimasto all’oscuro dietro il mucchio delle casipole più povere, lassù in cima al paese. L’unico lato libero, a ponente, era chiuso da una muriccia sormontata da rovo e vitalba infrascati insieme. Di tanto in tanto s’aprivano quei buchi di finestre sul retro delle case e veniva vuotato nel fosso un orinale o vi piovevano manciate d’immondizia. Ve n’era un cumulo entro cui il sambuco, scerpato dalla ragazzaglia, corroso, nero come di grumi, continuava a verzicare in primavera e ad aprire le ombrellucce bianche dei fiori, impregnando attorno l’aria d’un odor sapido di malattia. I ragazzi che, superando d’un salto la muriccia sgretolata, andavano ad accoccolarvisi per fare i loro bisogni, finirono per mettersi soggezione di quella donnina che restava affacciata senza dir nulla finché si nettavano con una foglia del sambuco e si tiravano su le brache. Quando le vicine la videro star sotto l’albero, si peritarono, se non di gettar le immondizie, almeno di vuotare gli orinali, pur borbottando. Infine, zitta zitta, la Monachicchia [nomignolo di Colomba] rimosse quel letamaio, trasportò scavò rivoltò, e un giorno ebbe ripulito il fosso. Le vecchie si ricordarono che la madre di Titta, lei pure, aveva voluto piantarci qualcosa. Neanche di sole ce n’è per tutti a questo mondo, ben si sa: ma certa gente non vuole accorgersi che il sole non l’arriva.
(Laudomia Bonanni, da Il fosso, Mondadori, Milano, 1949)

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