martedì 31 agosto 2010

Da Favole 2010

Come mi piace raccontare

Come mi piace raccontare, raccontarmi dentro, raccontare passeggiando, raccontarti.
E mi piace, come mi piace!, vedere le cose da raccontare, quelle che ci sono innanzitutto, proprio, proprio qui, proprio ora, perché chissà se fra un minuto questa luce se ne sarà andata o sarà ancora proprio questa, se questo cammino ci sarà ancora e ancora quella persona e quella e quella e quell’altra e nel ricordo, perché chissà se fra un minuto il ricordo sarà proprio ancora così o sarà diverso, come raggelato dentro al corpo, ci sono ricordi che possono sbiadire come la stoffa di un vestito tenuto troppo al sole e se sbiadiscono, sbiadiscono, e ancora sbiadiscono, alla fine non sono più niente, quasi niente, e allora bisogna continuamente raccontarseli i ricordi.
E come mi piace raccontarsi il corpo che i profumi del corpo me li racconto, così evaporano di meno perché i profumi se ne vanno e se non li racconti poi non ci sono più e ti devi sforzare, li devi raccontare, per esempio il profumo che hanno le pieghe dei gomiti, gli incavi, quando sei giovane.
Come mi piace raccontare!!!
Lascia che io guardi ancora tutto, proprio per dirtelo per bene, proprio, proprio, perbene, perché i bambini e i giovani sono troppo occupati a guardarsi dentro, a crescere, impegnati, impegnatissimi nella crescita, e gli adulti nella lotta per rimanere in piedi, schivando non sai quante buche, chiodi arrugginiti, ortiche e rovi, bisce che pendono, vipere che mordono, perciò solo i vecchi si godono lo spettacolo di fuori e lo sanno raccontare. Chissà se poi, dopo, arriva anche il momento che non perdono più tempo a raccontarlo, gli basta solo ancora, e ancora, e ancora, vederlo.
Ad ogni modo adesso mi piace vederlo e dirtelo.
Che è tutta una favola, credimi, questa luce che si presenta e poi a poi a poco vira e si nasconde nella sera che certe volte ti coglie all’improvviso mentre ancora leggi e non ci hai proprio pensato ad accendere la luce e poi si dorme, che è bella la stanchezza, qualsiasi cosa tu abbia fatto di giorno, la stanchezza fa giustizia e scivoli proprio dentro al cuscino e il giorno dopo si ripresenta la luce e vira ancora nei suoi modi diversi , dipende dalla stagione, dai mesi, dal posto del mondo in cui ti trovi, ma si ripresenta, in certi posti, lo sai?, dopo qualche mese.
E incredibilmente quando ti svegli, ti scopri a respirare.
Tu sei respiro, anche se ancora non lo sai, perché ora sei tutta fame, non lo sai, non ci fai caso, che sei respiro. Respiro che ti accompagna lungo il lunghissimo giorno e che vira come la luce.
Ma al mattino si ripresenta sempre. E io te lo racconto!

lunedì 30 agosto 2010

Da Favole 2010

Mogli

Una volta, un po’ di tempo fa, non tanto tempo fa ma un po’ di tempo fa, il tempo che ci vuole a fare invecchiare una casa, iniziare a invecchiare una casa, quando i tubi cominciano a perdere e l’intonaco esterno a sgretolarsi, quando l’impianto elettrico non è più a norma e gli infissi non chiudono bene e il legno delle imposte si scheggia e il pavimento si allarga, cioè le fessure fra una mattonella e un’altra si allargano e in mezzo c’è uno scuro che non va via e le maniglie delle porte forse sono un po’ ossidate e la poltrona è completamente infossata e il divano smollato e il frigorifero cambiato tre o quattro volte e in quella casa sono già passate almeno tre famiglie e i figli sono diventati nonni e altri figli si affacciano forse più robusti e più lunghi e più allegri, tutto merito del latte artificiale dirà qualcuno, insomma una volta non antichissima ma abbastanza antica da scriverci una favola, una volta le badanti si chiamavano mogli.
Le mogli badavano a tutto. Innanzitutto cucivano e stiravano e lustravano le scarpe perché se uno usciva di casa con gli abiti spiegazzati e senza bottoni o con orli scuciti o federe pendenti voleva dire che in quella casa non c’era nessuno che badava a niente e dunque quella era una casa di poveracci davvero, poveracci di cure, di affetto, di sapienza e di lavoro, una casa di vagabondi e di disgraziate. Una casa senza moglie.
E le mogli badavano alla cucina. Ma non la cucina elaborata e raffinata o esotica o dietetica o salutistica. Le mogli badavano alla cucina per crescere i figli, per curare gli ammalati, per far mangiare i vecchi, quelli senza denti, senza udito, senza vista e senza appetito proprio come erano i vecchi di una volta che non si mettevano le dentiere né gli apparecchi acustici né si operavano di cataratta e non uscivano sulla sedia a rotelle e non avevano il fisiatra né le flebo dunque era un’acrobazia riuscire a farli mangiare, bere, andare di corpo, pisciare e quello era un lavoro delle badanti che si chiamavano, a quei tempi, mogli e con la loro cucina riuscivano a parare, a rinviare il più possibile l’arrivo del dottore che quando arrivava il più delle volte ammazzava. E le mogli conoscevano le monacelle, i rimedi delle monacelle e facevano bollire certe tisane, una per pisciare, una per andare di corpo, una per l’allegria, una per il sonno, una per il fegato, una per la febbre. E accuratamente le badanti- dette mogli- nascondevano al medico quello che combinavano in cucina perché la cucina era roba loro e là dentro potevano entrare solo altre mogli o future mogli o mogli in pensione, nessun uomo poteva mettere il naso.
E le mogli- badanti capivano quando era stato concepito un figlio o stava per nascere un figlio e quando stava per morire un vecchio. Non c’era bisogno del dottore, da certi segni incomprensibili ai più ma non a loro le mogli badanti capivano la vita, il suo inizio, la sua fine, le sue parentesi.
E le mogli facevano da architetto nelle case, le abbellivano, le decoravano, le intessevano, le mantenevano, le ricamavano e lavoravano a maglia. In ogni casa si sentiva il rumore del pedale, c’era sempre una poltrona vicino a una finestra, la luce giusta per il ricamo.
Le mogli – badanti una volta non venivano pagate, non avevano lo stipendio, né la liquidazione, né la pensione. Da vecchie se la dovevano cavare così, da sole, sperando che la più giovane moglie-badante si prendesse cura di loro come loro si erano curate della suocera, della mamma, della zia zitella. E poi speravano di non vivere a lungo, non troppo a lungo, perché è triste la vecchiaia quando non puoi più badare a qualcuno.

Da Favole 2010

Mirta

A richiesta ora racconto la favola di Mirta ( conta, conta, dicevano alle vecchine, una volta di quelle là, le bambine, le ragazze grandi da marito, le spose, le donne incinte, le puerpere, le lavoranti di casa, le lavandaie le sguattere, conta , conta, canta canta, suona suona, dicono oggi in piazza quando c’è il moderno saltimbanco, il contastorie, cioè il tipo che viene pagato alle feste dell’Unità o alle sagre di paese o dai comitati turistici per cantare e far ballare la piazza, canta, canta) e dunque mi accomodo la penna, anzi il computer, e ti racconto anch’io qualcosa, che una volta ci si accomodava la gonna, si preparavano le mani o si accomodava la penna e l’inchiostro e la carta assorbente e ci si apparecchiava a contare.
Ecco ci sono già dentro, sto parlando di Mirta.
Perché Mirta sa di ramoscello, di verde d’autunno ma anche di inchiostro e di carta assorbente e di pennino e di cucina e di orto di ortaggi di caminetti e di pavimenti in cotto, di fazzolettoni sulla testa di ariose finestre che si spalancano su orti in discesa uliveti senza confine vitigni bassi cantine oscure sentieri punteggiati da muretti di coccio segnati da qualche botte e lontano, sai, anche lo spaventapasseri.
C’é aria intorno. Molta aria. Aria aperta, dove si respirano i fuochi delle conserve d’agosto, degli agnelli di Pasqua, dei carciofi nuovi, la bollitura delle marmellate.
Ma Mirta è anche Mirtella e Mirtella percorre i boschi del passato, scava le buche della memoria, le sopravvivenze, qui un coccio, lì una pietra, più giù una colonnina, scava in linea retta ma talvolta fa dei giri eleganti intorno alle cose perché non scordarti che è una ninfa e si chiama Mirtella.
Sicché il bosco la chiama ed è un bosco gravido di calore silenzioso e pulito con lisci tronchi e profonde radici che devi stare attenta, nelle radici ci caschi, e c’è nel bosco il buco del silenzio che gravita fermo come il gabbiano quando vola con le ali immobili invece è il bosco che sta gravido, immobile è un bosco sacro lo percorre Mirtella.
Dici che è una biblioteca?
Che il bosco sono le colonne di legno dove immobili stanno i libri dai dorsi dorati in bell’ordine più su, più su ,più su, religione storia filosofia medicina su, fino ai finestroni sempre chiusi, giù, ancora più lontano, nel magazzino con le cancellate, chiavistelli ovunque, attenta a non inciampare nel sapere.
Ma no, che Mirty non inciampa perché lei è anche Mirty e si dà da fare intorno a un libro come intorno ad un ortaggio e lo sorveglia, lo coltiva, perché, sai, i libri sono delicati, delicati da leggere, delicati da mangiare.
Provati ad aprire un libro di quelli del bosco e avrai paura.
Dall’emozione, specialmente se hai tredici anni, ti si incollerà l’inchiostro dentro, in un posto che alcuni chiamano anima, ma questo lo scopri dopo, intanto che ti muovi nel bosco, e anche sulle dita, allora il libro si chiama manoscritto ,ed è un fungo nascosto.
Un giorno ti prendo per mano e ti ci porto, sì che ti ci porto, in una biblioteca.
Ma devi stare in silenzio, come in chiesa, così vedrai il bosco.
Mirtella, invece, ti ci porto prima.

domenica 29 agosto 2010

Da Favole 2010

Pentoloni

Una volta c’erano i pentoloni. Pentole talmente grandi che nemmeno te lo immagini quanto erano grandi che quando le trovavi in un libro di favole non sembrava una favola ma una pentola vera perché ogni giorno a tavola l’acqua bolliva in una pentola così e passava un ‘ora prima che l’acqua bollisse e più la guardavi più non bolliva mai dentro l’alluminio tirato a lucido la superficie appena increspata la mamma che diceva se la guardi non bolle mai.
E in questa pentola si buttavano dentro certi spaghettoni lunghi e duri che bisognava tagliare a metà che si compravano in certi negozi che li tenevano in certi cassetti di legno aperti inclinati e c’era in quei negozi odore di spaghetti di citrato e di cassetti.
E dopo un po’ con la punta di una forchetta si tirava su uno spaghetto lungo e lucente e si assaggiava ma era sempre duro e bisognava aspettare ancora sicché si assaggiava di nuovo e di nuovo finché non assaggiavi più e lo spaghetto scuoceva se per esempio ci si metteva a parlare e si scherzava e bisognava essere in due ad alzare il pentolone a scolare la pasta a reggere lo scolapasta a farla saltare e l’insalatiera era bianca pesante enorme con lo strofinaccio intorno a portarla a tavola.
Ma non ricordo, non ricordo bene del sugo. Perché più spesso era burro certi tocchi di burro decisamente giallo prima che ci dicessero che era meglio no niente burro e sul burro il formaggio grattato un formaggio invecchiato e il pepe nero che faceva allegria preso dalla boccetta e non come si vede ora nelle pubblicità macinato in certi affari finto antichi.
Perché una volta il macinino era solo per il caffè e ci volevano ore prima di macinarlo con pazienza e si guardava attentamente la mamma che era serena e concentrata mentre lo faceva come quando stirava o quando avvolgeva gli involtini o quando passava il riso le lenticchie sul ripiano del tavolo.
E il macinino? Il macinino è lì, in alto, aspetta che te lo prendo.

Da Favole 2010

Favolissima

Potrei anche domani andarmene e allora giacché ho una fretta terribile ti dico subito chi sono perché credimi gli uomini sono come le favole, uno simile a un altro non ce n’è, e la favola che si conosce meglio è la propria anche se senza conclusione che la vedi intanto che la racconti e più tempo passi a raccontarla più la vedi.
Dunque sono nata che era autunno, quando c’era l’autunno, come faccio a spiegarti,l’autunno era un tempo frescolino con i cachi che ti potevi mettere un maglione leggero, una gonna a pieghe e i calzettoni e trovavi già le prime pere e sono nata che c’erano inchiostri e pennini e la carta assorbente e sono nata che se una era brutta era proprio brutta e non c’era rimedio e le brutte brutte avevano proprio un odore diverso e se avevano i baffi e i brufoli e i punti neri e il naso lustro se lo dovevano tenere e se erano belle però erano bellissime.
E poi c’erano i maschi e c’erano le femmine e i maschi erano forti ma proprio forti con i muscoli sotto alla camicia e l’odore di sperma di maschio e le femmine erano tranquille con l’odore di femmina dolce erano serene, fatte tali dalle gravidanze e dai bambini e c’erano un mucchio di bambini dappertutto e non c’erano tante medicine per cui ogni tanto la morte aleggiava vicina, proprio vicina, addirittura nel cortile, state zitti, state zitti c’è una bambina che sta molto male.

E c’erano le canzoni dalle finestre aperte e c’erano gli stracci per la polvere e c’era l’acqua della fontana e c’era l’educazione e c’erano mamma e papà che certo ci sono ancora ma mamma e papà di una volta si sedevano a tavola e non potevi disubbidire né gridare né mancare di rispetto perché non era tanto sicuro che non ti abbandonassero e se eri venuto al mondo non era per loro decisione ma di Dio e dunque loro erano irresponsabili della tua nascita, responsabili solo d’amore, tutti sotto la decisone di Dio e perciò bisognava essere umili.

E quando sono nata c’era la pazienza, pazienza del dolore, pazienza della malattia, pazienza del farsi delle cose che si fanno a poco a poco e non è detto che sempre riescano.

E quando sono nata c’erano le parole, tante parole e le parole riempivano gli occhi, le orecchie, la bocca, le parole facevano il mondo, non c’era altro divertimento che la parola.

E quando sono nata insomma era il millenovecentocinquanta era un secolo fa era l’anno Santo arrivarono gli antibiotici e per quello sono nata settimina tutta pelosa due mesi in incubatrice e mia mamma non morì di tifo dopo avere bevuto per tutta l’estate l’acqua di un paese di mare che si chiamava Mondello.

In casa c’è una fotografia da qualche parte, Lia sotto un muro bianco a Mondello. Io sono in quella pancia.