Letture a cura di Roberto Milana



Bruno Conte e le sue favole
08/11/2011
Una favola dice da sola qualcosa sul mondo, un centinaio sono in grado invece di edificarne un altro, marxianamente. Dove gli atti formali della conoscenza lasciano il posto alla sobria furia del cambiamento. E' così pienamente il caso delle Ovole favole di Bruno Conte che a scorrerle sembrano cronache di un paese fisicamente in rodaggio, dove scompaiono i principi della gravità e della determinazione per far posto fenomenologicamente a rapprese storie iniziatiche. Ma quando si tirano i fili delle fresche categorie di questo nuovo mondo, rimangono in mano labili e insostanziali fumi, a dirla con un Palazzeschi a denti stretti , che si diverte nell'acido sollazzo del pensiero negativo a lui coevo.
Il locus atrocemente ameno di Conte è composto di scorci della geografia favolistica: boschi, orticelli, patateti, campi e laghetti, montagne e penisole..., immersi in una dimensione spoglia e lunare, ovvero priva di qualsiasi rigoglio naturalistico. Avvengono qui vicende a volte di una densità apocalittica ma sempre narrativamente scarne, come tappe di un tour dell'arido e necessario vero che si susseguono imperturbabili.
In questi scenari agiscono personaggi attinti dalle tipologie social-medievali delle favole: maghi, gnomi, briganti, eremiti, nani, giganti, alchimisti, fate, re, regine, principesse..., oppure dalle province di un italietta appenninica di macellai, pensionati, violinisti, professori, scolari, filosofi, medici, viaggiatori, viandanti, contadini...
Ogni racconto regolarmente si avvia dalla vaga ma perentoria presentazione del protagonista, sicché la storia che si dipana sembra proprio un vestito cucito addosso a lui. Questa vaghezza si espande anche all'ambiente, affetto da una metafisica genericità che accoglie invece fatti di una dolorosa precisione, inquietanti per l'asettica casistica del male (l'uomo che appena coricato si trovò impietrito in un buio fitto e profondo, bambini impauriti d una vecchina che li stampa addosso a una parete, l'omino Babbeo mangiato dall'amico orso...) offerta come una specie di ginnastica della sofferenza.
Spesso l'evidenza netta dei fatti è cosi comprensiva che accoglie tutto, ma proprio tutto quello che accade e quello che può accadere, fino alla frequentazione delle periferie tremende e letterarie dell'assurdo. A parte il brano di Theodoro Ulm, più kafkiano di Kafka, per l'opera intera spenderei di più il nome di Leopardi delle Operette morali, per la vaghezza, la strana territorialità, il grottesco lieve e il ritorno di un'eco filosofica malgrado la fissità ermetica di molti finali di favola. E poi la grossa talpa seduta ed eretta, non può non farci pensare alla gigantesca matrigna matrona natura del dialogo con l'Islandese. Comunque il pessimismo ebraico, mitteleuropeo dello scrittore praghese presenta una disperazione risoluta e devitalizzata, una muta agonia, quello leopardiano nella sua volontà affermativa della voce spiegata trasmette invece la vitalità del desiderio represso, della prigionia del dolore. Anche le Ovole favole di Conte, malgrado la freddezza artigianale di un linguaggio sorvegliato, comunicano il dinamismo interiore di una quete continua dei personaggi, come la fanciulla Zara che attende nel reticolo del suo spazio tempo uno spiraglio, come se qualcuno potesse bussare...
Altre novelle sembrano portarci nel mondo stralunato, come un sottovuoto teatrale, di Perelà l'incorporeo uomo di fumo del Palazzeschi futurista: personaggi che si “immateriano” negli oggetti come il violinista col suo strumento o la piccola Marie con la credenza della cucina di casa, altri ancora che perseguono decisamente l'ironia come l'eremita che capita nel paese degli eremiti o la lampada dei desideri in formato bomboletta spray, pure esaurita.
Bruno Conte è anche un artista importante e qui ha inserito alcuni disegni semanticamente quasi confondibili con le favole, per quanto interpretano il loro spirito di metafisica vaghezza attraverso un segno grafico di significativa immaterialità.

Bruno Conte - Ovole Favole
Roma - Onix ed. 2011

Roberto Milana






Un partigiano all'inglese

La natura originaria di materia narrativa ufficialmente inconclusa, editorialmente nervosa del testo del Partigiano Johnny, pare suscitare nel lettore un'attenzione indiscreta e complice e una piacevole sensazione autoriale. Già lo svolgimento di molteplici quetes ariostesche per le Langhe ora fedeli ora ostili in suggestivi cambi di scena: desideri e ricerche di armi, cascine per dormire, spie da giustiziare, fascisti da scambiare con partigiani prigionieri...compongono un'altalenante fenomenologia della sopravvivenza fisica, morale e militare che il lettore può indirizzare semanticamente dove vuole, innestando le combinazioni storiche e ideologiche che Fenoglio ha evitato di cristallizzare. La quete più laboriosa, comunque è quella esistenziale ovvero Johnny che interroga senza sosta fatti e fattacci, dettagli e consistenze e la loro pertinenza con la scelta partigiana comunque granitica, in quanto etica e cromwelliana, come suggerisce l'autore.
La condizione o l'illusione autoriale si esercita anche sul piano strettamente linguistico quando il profluvio di neologismi, che Dante Isella ha registrato a iosa, per lo più derivati da normali sostantivi e aggettivi (correntoso, fontanellò, mallavati, avarificati...), fa tremare l'atto narrativo con la sua temerarietà, che il lettore dovrà accogliere e legittimare nel contesto imprescindibile della sua azione ermeneutica. Così come pretendono confidenza le varie tipologie metaforiche messe su con materiali di spicciola attualità e un sottofondo d'ironia: “...il pomeriggio e la sera precipitano, niagaricamente...”, “...e rispose a Nord con la stessa monosillabica convinzione che all'accettazione dei voti...”, “...inveleniti ed aizzati dai boati che uscivano dalla città come da uno stadio in cui si segni un goal ogni minuto...”.
A volte una specie di freddo disincanto pervade il pensiero di Johnny persino nel climax più drammatico, gli si posa sulle due pieghe intorno alla bocca, come un Marlowe langarolo, ma non l'amatissimo elisabettiano bensì il detective chandleriano disilluso e perplesso di fronte ai misteri indiziari e alla loro volubilità, ma sensibilissimo a riconoscere il male, attraverso le medesime osservazioni di saggia ironia, di micidiale pedagogia. Il tutto narrativamente procedente nei dialoghi svelti e risoluti, ben rari nel nostro italiano così letterario e descrittivo, ma così caratteristici delle opere anglo americane. A quello forse pensava Vittorini quando annoverava Fenoglio, nel risvolto de “La Malora”, tra “...questi giovani scrittori dal piglio moderno e dalla lingua facile...”.
Qualcuno nel folto campo zdanoviano di quegli anni ha scambiato poi l'eroismo sobrio del partigiano Johnny per un antipatico snobismo borghese, errando fortemente, perché quest'ultimo se ancora può dirsi ha portato all'inazione connivente mentre il disincanto del nostro accompagna un impegno severo e virtuoso, incrollabile eppure credibile sempre, come nelle splendide pagine fuggiasche dopo Alba, tra le migliori della narrativa italiana, in una tenerissima getaway solitaria, all'ultimo respiro.
Il disincanto è anche il modo seriamente sfrontato di procedere ad una operazione linguistica speciale: una paratassi evocativa agita la sintassi del periodo con una combinazione di frasi incalzante, dai ritmi jazzistici e a volte percussivi del beat, ma nello stesso tempo va a definire sensorialmente spazi, tempi, concessioni, condizioni, finalità ecc. recuperando in maniera empirica, fisiologica un sistema che l'ipotassi impone per statuto concettuale. Queste pratiche linguistiche contribuiscono a salvare il testo dagli eccessi di retorica sempre in agguato nella letteratura resistenziale e a liberare forze espressive potenti che riescono a collocare le vicende del fine fascismo piemontese in una prospettiva universalistica: ogni morte è viva, antropologica- mente, ogni dubbio è di epica sostanza, ogni sacrificio o tradimento nasconde dietro umili, cascanti figure dei percorsi morali di gran dignità.

Roberto Milana

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