Fabrizio Mugnaini. Ricordi d'artista.



Fabrizio Mugnaini su Laudomia Bonanni

Buongiorno e buona domenica, ieri finalmente mi sono preso un giorno di svago, passeggiata al mare con pranzo a base di pesce, oggi riposo nello studio tra libri e conigliette. Sempre rimanendo in tema di letteratura femminile, poco conosciuta e per niente valorizzata, mi preme parlare di una scrittrice che, secondo me, andrebbe riletta, Laudomia Bonanni (1907 – 2002). Non ho avuto il piacere di conoscerla di persona, credo per una forma di pigrizia che ti assale quando sei giovane o perché pensi di dare delle priorità e spesso sbagli, con l’esperienza di oggi non avrei perso questa ghiotta occasione. Comunque sono felice di non averla trascurata come scrittrice leggendo gran parte dei suoi scritti, almeno quelli che ho avuto modo di procurarmi. Laudomia è sempre stata una maestra elementare, non ha mai cercato notorietà, la sua lunga esperienza a contatto del mondo giovanile è stata arricchita dalla consulenza presso il Tribunale dei minori; nonostante gli impegni ha trovato il modo di scrivere dei bellissimi romanzi che, attenti alle problematiche delle classi più umili, hanno offerto uno spaccato della società contemporanea. Il suo modo di scrivere è particolare e le tematiche che affronta la rendono unica nel panorama del ‘900 italiano. Era convinta che il maschilismo rovinasse il mondo e che era necessario abituare, dirozzare lo spirito al dolore del vivere. La prima convinzione sarà quella che la relegherà nel più profondo scantinato, senza luce e acqua, destinata a morire di stenti, sola e dimenticata. In vita la sua fama non poté passare inosservata, i suoi maggiori estimatori furono Montale, Cecchi, De Robertis, Falqui; con il “Fosso”, ottenne il premio al salotto letterario Bellonci e nel 1950 vinse, prima ed unica donna, il Premio Bagutta, con “L’imputata” nel 1960 vinse il Premio Viareggio e nel 1964 il Premio Campiello con “L’adultera”. Quando nel 1985 l’editore Bompiani rifiutò di pubblicare il suo ultimo romanzo “La rappresaglia”, posò per sempre la penna e si ritirò a vita privata. Modi da misantropa cortese, un sorriso a tutti, chiacchiere e confidenze a nessuno. Rimase solitaria, rocciosa come il Gran Sasso che nel 1907 l’aveva vista nascere ai suoi piedi. Pietro Zullino la ricorda così: “Alle sei di ogni sera una ultranovantenne piccola dal passo straordinario agile e svelto si affacciava su piazza della Balduina – scendendo dalla sua dimora al terzo piano di via Romagnoli 12 – e cominciava la sua quotidiana passeggiata di tre chilometri, per vie secondarie su su fino al giro della boscosa Villa Stuart, e ritorno. Il tabaccaio, il libraio, il fioraio, i portinai, i negozianti in genere, i bancarellari di Piazza Mazzaresi, persino i vu’ cumprà del marciapiede la conoscevano come la Grande Scrittrice”. Io mi auguro che tutti la possiamo ricordare così, gentile, novantenne senza un capello bianco e passo svelto da gazzella, promettendo di leggere e ri-leggere i suoi libri, fonte di insegnamento ed ispirazione.
La serva Colomba e il marito Titta contadino, analfabeti, strappano la vita coi denti. Riattata una casetta ai margini del paese, cercano di farsi anche un orto.
Per lungo tempo, sbrigate le faccende e preparato il cibo, non potendo più raggiungere Titta, la Colomba s’affacciò alla finestruola e stette per mezze giornate a rimirare il fosso. Così le donne chiamavano quel che Titta chiamava orto. Era in realtà un appezzamento di terreno rimasto all’oscuro dietro il mucchio delle casipole più povere, lassù in cima al paese. L’unico lato libero, a ponente, era chiuso da una muriccia sormontata da rovo e vitalba infrascati insieme. Di tanto in tanto s’aprivano quei buchi di finestre sul retro delle case e veniva vuotato nel fosso un orinale o vi piovevano manciate d’immondizia. Ve n’era un cumulo entro cui il sambuco, scerpato dalla ragazzaglia, corroso, nero come di grumi, continuava a verzicare in primavera e ad aprire le ombrellucce bianche dei fiori, impregnando attorno l’aria d’un odor sapido di malattia. I ragazzi che, superando d’un salto la muriccia sgretolata, andavano ad accoccolarvisi per fare i loro bisogni, finirono per mettersi soggezione di quella donnina che restava affacciata senza dir nulla finché si nettavano con una foglia del sambuco e si tiravano su le brache. Quando le vicine la videro star sotto l’albero, si peritarono, se non di gettar le immondizie, almeno di vuotare gli orinali, pur borbottando. Infine, zitta zitta, la Monachicchia [nomignolo di Colomba] rimosse quel letamaio, trasportò scavò rivoltò, e un giorno ebbe ripulito il fosso. Le vecchie si ricordarono che la madre di Titta, lei pure, aveva voluto piantarci qualcosa. Neanche di sole ce n’è per tutti a questo mondo, ben si sa: ma certa gente non vuole accorgersi che il sole non l’arriva.
(Laudomia Bonanni, da Il fosso, Mondadori, Milano, 1949)







Fabrizio Mugnaini per Alba De cespedes



Buon venerdì, anche stamani freddo, leggermente nuvoloso. Giorni densi di lavoro, non trovo mai il tempo per scrivere qualche breve profilo. Tento di rubare il tempo al tempo e buttare giù due righe. Dopo il profilo di Goliarda ho riflettuto sul mondo femminile nella letteratura italiana e mi sono accorto che esistono delle eccellenze, poco conosciute e per niente valorizzate. Una di queste, fra le tante, è Alba de Cespedes (1911 – 1997). L’ho incontrata una sola volta a Roma, fine anni ottanta, un giorno che andai a trovare Alberto Moravia, rimpiango di non aver coltivato il contatto. Nella vita, ogni azione andrebbe fatta due volte e forse sarebbe poco. La ricordo piuttosto anziana, elegante e molto bella per l’età, grande personalità e carisma, anche la figura di Moravia si eclissava. Parlava piano in modo sommesso come avesse il timore di rompere quella calotta di silenzio che si era creata nei suoi confronti, sapeva perfettamente che la memoria è come un’onda lunga, dolce e terribile allo stesso tempo. Grande fumatrice, accendeva la sigaretta con quella che spengeva. Più di tre ore di conversazione e dopo a casa a ripensare a quell’incontro. Sono passati alcuni anni prima che decidessi di approfondire il mondo di Alba de Cespedes. È stata una delle protagoniste della letteratura del ‘900, donna di rara fermezza, perseveranza, ha rifiutato con puntiglio ogni incasellamento, nessuno schema prefissato, si è proposta due obiettivi: la qualità letteraria e un forte impegno politico. Fu partigiana con il nome di battaglia “Clorinda”, già nel 1935 subì la carcere per alcuni articoli sul Messaggero; il suo primo romanzo “Nessuno torna indietro”, Mondadori, 1938, fu censurato e ritirato dal commercio, solo l’intercessione di Arnoldo Mondadori fermò la distruzione. Il romanzo sosteneva l’emancipazione della donna, le donne raccontate da Alba non erano conformi alla morale fascista, fu osteggiato pesantemente. Nel 1944 fondò la rivista “Mercurio”, che si avvalse delle più importanti firme come Moravia,Hemingway, Bontempelli, Aleramo, Maccari, Scialoja; la rivista chiuse nel 1948. A tal proposito riporto una Lettera del 5 luglio 1945 di Gino De Sanctis ad Alba De Céspedes: «Qui le cose vanno bene per quel che riguarda la rivista e la vendita. Male per quel che riguarda la difficoltà sempre più grande di trovare gli articoli: dato che quasi tutte le personalità politiche “romane” hanno già scritto per noi, e alcuni hanno scritto tanto male da toglierci la voglia di invitarli una seconda volta. D’altra parte i cosiddetti giovani non scrivono meglio di loro e perciò la politica riesce ogni giorno più difficoltosa, seppure io passi la giornata a lanciare inviti. […] Sarebbe più urgente qualche articolo di politica perché la gente ha voglia di leggere firme nuove e non il solito rifritto che dai quotidiani passa ai settimanali e alle riviste». Finita l’avventura di “Mercurio” scrive su “Epoca” e su “La Stampa”, da 1950 su dedica esclusivamente alla stesura dei suoi romanzi: “Dalla parte di lei”, “Quaderno proibito”, “Prima e dopo”, “Il rimorso” e “La bambolona”. Ci lascia, nel 1997, nella sua casa parigina dell’isola Saint-Louis come noi l’avevamo abbandonata e dimenticata; comunque proprio perché trascurata, caduta nell’oblio, Alba de Cespedes si sentiva veramente “libera”.
[…] Stasera, rincasando, ero gelata. E, prima di salire in camera, sono entrata nel bar per bere un
grog.
Lì, seduti a fianco sul divano, ho scorto gli interpreti di una clamorosa vicenda d'amore, da un paio
d'anni stabilitisi a Parigi. Subito, osservandoli, ho avuto una stretta al cuore. Non parlavano più
animatamente, l'uno rivolto verso l'altra per non perdere una parola, uno sguardo, come li avevo
visti l'anno scorso. Allora, il loro fervido discorrere, il saluto breve che m'avevano rivolto per
evitare che andassi a salutarli, interrompendo il loro colloquio, avevano suscitato in me una
benevole invidia. Ora, invece, tacevano. Lui tamburellava con le dita sul tavolino e lei girava lo
sguardo attorno cercando qualcosa che potesse interessarla. Quando sono entrata hanno scorto in
me un provvidenziale diversivo. Ma, sebbene m'invitassero con aperti sorrisi, non mi sono
avvicinata per non essere costretta a rendermi conto che la loro passione era decaduta in un placido
affetto soffuso di noia. […]
È stato proprio con aria di complicità che egli è venuto ad invitarmi al loro tavolino. Quando li ho
raggiunti ho notato ancora una volta quanto siano abili le donne nell'inventare il personaggio di se
stesse in cui vogliono vedersi raffigurate. Ella mi ha accolto come se fosse stata sorpresa in uno dei
loro antichi colloqui clandestini e, arrossita, fissava il suo compagno con uno sguardo che imitava
perfettamente quello di un tempo. Ma lui, ingenuamente, confermava i miei sospetti, chiamandola
"Topolino" e usando, nel parlarle, un gergo bamboleggiante, inadatto alla loro ardita condizione.
Lei sorrideva, soddisfatta, mentre io consideravo che la sostituzione del linguaggio serio degli
amanti con quelle blandizie infantili manifestava un ritorno all'innocenza e, dunque,
all'indifferenza nel campo sessuale.
Poi, diretta al telefono, passò una ragazza alta, splendida, dai capelli tinti di rosso fiamma secondo
l'ultima moda; le gambe, lunghe e piene, si disegnavano sotto la stretta gonna. "Belle gambe", io
dissi. "Bellissime", rafforzò la mia amica, guardando il suo compagno per averne conferma. "Sì",
egli ammise senza convinzione, e poi aggiunse con una smorfia; "Sembrano belle a causa dei
tacchi molto alti". Si discusse, allora, di quali tacchi giovino maggiormente alla figura femminile.
"A me stanno meglio i tacchi bassi o quelli alti?", domandò lei con voluta noncuranza. Egli pensò
un momento, poi disse, teneramente: "A te sta bene tutto".
Io salutai, adducendo una scusa. Mi domandavo se, dopo quell'episodio e quella frase, anche lei
avesse capito che il loro grande amore era finito, che egli era sul punto di tradirla o, forse, l'aveva
già tradita.
[Alba De Cèspedes, Diario di una scrittrice]



Fabrizio Mugnaini su libri biblioteche e librai


Buona domenica, ridendo e scherzando siamo arrivati già al 10 febbraio, incredibile. Molto probabilmente questo forzato riposo mi ha tolto la sensazione del tempo che scorre … Non sono stato per niente bene, prendo comunque il lato positivo, qualche lettura in più me la sono fatta e questo non guasta. Oggi mi piace parlare di una delle tante passioni che mi legano al mondo dei libri: il libri che parlano di libri, biblioteche, librai. È una passione che coltivo da molto tempo, non solo leggo quei libri che già dal titolo affrontano l’argomento, ma annoto anche tutte le frasi che trovo durante le letture più disparate. Lo so, mi considerate pazzo e come non potrei esserlo visto che i giorni di tramontana sento ancora piangere Dino Campana rinchiuso nel manicomio di Castelpulci? Il lamento di Dino mi accompagna sempre e quando sono nello studio con la finestra aperta, vi confesso che è una dolce compagnia, fisicamente è sepolto nel cimitero di San Colombano, poco distante anche quello, ma l’anima vaga per la campagna circostante e ogni tanto si ferma per un caffè. Secondo me un libro va letto sempre con attenzione e mai solo la trama di cui narra, il libro nasconde sempre qualcosa, nuovi spunti, riflessioni, interessi; annotare e rileggere dovrebbe essere un dovere di ciascuno, lettori distratti e occasionali non fanno un bel servizio al libro. La lettura per essere vera deve essere costante, durare nel tempo, deve arrampicarsi come uno scalatore che affronta montagne invalicabili, principalmente non deve mai appagare la nostra anima. Curiosità e conoscenza. “Quali sono gli oggetti che nella vita le hanno tenuto maggiormente compagnia?” Carlo Bo rispondeva: “Non ricordi un giorno che mi sia passato senza libri”. Leggere un libro che parla, racconta di libri scomparsi e ritrovati, di manoscritti, di bozze ancora da corregge mi affascina, mi rapisce il profumo della carta, l’odore dell’inchiostro. Il libro va aperto e chiuso come la porta di casa, so deve entrare dentro, sfogliare pagina dopo pagine, tornare indietro, lasciare segnali del nostro passaggio, biglietti, segnalibri, annotazioni, senza mai piegarne l’angolino, anche il libri sono vivi, soffrono a questi affronti e la notte, a luci spente, si lamentano, piangono. Di seguito alcune brevi segnalazioni che mi sono annotato in questi anni: “O amatore di libri, un certo mio modo di amarli e di possederli ti sarà sempre sconosciuto; né io saprò mai renderlo chiaro. Niun di essi viveva intiero; ma in tutti era un punto sensibile che sapevo cercare e premere” (Gabriel D’Annunzio, “La vita di Cola di Rienzo”, 1968); “Mi pare di fiutare nell’aria una libreria, libraio compreso” (Robert Walser, “La passeggiata”, 1976); “Una lettera stampata, maiuscola o minuscola, tonda o corsiva, è un ritratto, un simbolo, è un’immagine: ci dice il colore della pelle, la pressione sanguigna, la capacità sessuale, il gradiente fantastico, l’abilità delle mani, l’acutezza ottica, l’intelligenza, l’astuzia …” (Leonardo Sinisgalli, “Furor mathematicus”, 1967); “Egli bagnava l’indice e il pollice con la lingua per sfogliare il suo libro, e a ogni tocco della sua saliva quelle pagine perdevano di vigore, aprirle voleva dire piegarle, offrirle alla severa azione dell’aria e della polvere, che avrebbero roso le sottili venature di cui la pergamena si increspava nello sforzo, avrebbero prodotto nuove muffe là dove la saliva aveva ammorbidito ma indebolito l’angolo del foglio” (Umberto Eco, “Il nome della rosa”, 1984); “ … perché mai ho saputo che questo prezioso libro esiste, se non devo possederlo né vederlo mai? Andrei a cercarlo nel cuore ardente dell’Africa, o tra i ghiacci del polo, se sapessi di trovarlo” (Anatole France, “Il Misfatto del professore Sylvestre Bonnard”, 1982); “Perché la pagina rientri nel libro e non si rovini ulteriormente, bisogna riportarla alla misura delle altre. E ci vorrà un rappezzo in pergamena bianca dove più non scorre il sangue delle parole, ma necessario per il giusto equilibrio col resto: così come il troncone di legno della gamba o del braccio mutilati” (Manara Velgimigli, “Uomini e scrittori del mio tempo”, 1965). Dedicato a tutti coloro che mantengono nel tempo il gusto della lettura e sono disposti a lasciarsi sorprendere e intrigare dall’energia di una pagina scritta.


Fabrizio Mugnaini










Buon Sabato, cielo terso, sole e vento furioso, tutto rigorosamente visto dalla finestra, non c’è mai fine al peggio, oggi sono veramente da buttare, ma neanche la discarica mi vorrà prendere come rifiuto normale, anche in questo caso ci sarà da pagare il supplemento come rifiuto tossico. Sono venuto nello studio con la buona intenzione di scrivere il solito profilo giornaliero, perdonate le baggianate che saprò scrivere oggi. Ho conosciuto Romano Bilenchi (1909 – 1989) sempre in quegli anni fertili che mi hanno portato in giro per l’Italia, in quel caso non viaggiai molto. Era il 1984 quando incontrai per la prima volta Bilenchi, un ricordo facilmente documentabile dall’agenda rimasta aperta, sulla scrivania dei miei genitori, al 10 giugno 1984, giorno in cui andai a vivere in un nuovo appartamento. Sfogliandola ho trovato scritto, ore 16,00 appuntamento con Bilenchi, erano i primi di maggio. Mi ricordo che mi recai pimpante all’appuntamento, forse forte dell’essere nella mia città, e fui accolto, nell’abitazione di Via Brunetto Latini 11, con molto affetto, come avviene con un figlio, nipote che è stato via per una paio d’anni e torna a trovare gli zii. Bilenchi, aspetto burbero, occhi in fuori, e occhiaie pronunciate mi apparve proprio come uno di casa, maglione, capelli arruffati e sigaretta in mano. Si era un grande fumatore Bilenchi, lo si notava anche dalle dita della mano ingiallite. Il quadretto si completò con l’arrivo della moglie, Maria Ferrara, che ho continuato a sentire dopo la morte di Romano. Il personaggio mi incuriosiva e per questo mi ero presentato piuttosto documentato: l’aver fatto parte del fascismo, l’essersi iscritto al partito comunista, per anni era stato direttore di giornali legati al partito. Mi servì poco la mia documentazione, Bilenchi era un fiume in piena, con quella voce roca, bassa, mi dipinse un quadretto del Novecento che nessuno fino ad allora era riuscito a fare. Di se parlava poco, ma riusciva a ricordarsi attraverso gli altri, da Maccari, compagno nella rivista il Selvaggio, da Rosai anche lui fiorentino, Vittorini e tanti altri. Sono tornato diverse volte in quella casa di Firenze, sempre ben accolto, dopo la sua situazione inizio a peggiorare e pensai che i miei incontri lo avrebbero stancato, d’accordo con Maria non andai più a trovarlo. Mi ricordo che andai anche al funerale, fu sepolto nel cimitero di Ponte a Ema. Bilenchi è sempre stato un uomo di sinistra anche negli anni dell’adolescenza, una sinistra illuminata che perseguiva un progetto di libertà dell’uomo. E quando questo progetto venne meno o messo in discussione pagò di persona lasciando il suo “Nuovo Corriere” per non essere strozzato da un PCI miope e troppo totalitario. Bilenchi non è stato molto prolifico, ha scritto pochi libri, il più bello in assoluto, tolti alcuni racconti sparsi, rimane “Conservatorio di Santa Teresa”, bellissimi i due racconti del 1940 “La siccità” e “La miseria”, da leggere. Dopo la sua morte fu trovato, dalla moglie, un romanzo inedito, “Il viale” si chiamava. Maria lo fece leggere a poche persone, prima di morire lo ha bruciato insieme alle lettere che la riguardavano. Con questo gesto abbiamo perso un tassello importante della produzione letterari di Bilenchi, lo scritto sarebbe andato a colmare un buco nelle pubblicazioni di Romano.


Fabrizio Mugnaini



Oggi 27 gennaio 2013, credo che ogni profilo sia del tutto fuori luogo.
GIORNATA DELLA MEMORIA
per non dimenticare
tre interventi Fulvio Leoncini eseguiti per questo giorno 2011/2012/2013





  • Buongiorno, buon sabato soleggiato ma freddo. Finalmente mi rimetto a scrivere qualche breve profilo, tutto questo trambusto mi ha demotivato e non trovavo più le energie per scrivere, solo appunti e tanti libri letti. Questa breve descrizione fa parte, come diceva Vanni Scheiwiller, di quegli incontri importanti che vanno raccontati e descritti perché mai avvenuti. Sì, è vero, non ho mai incontrato Goliarda Sapienza (1924 – 1996), ma quanto l’ho desiderato, quanto avrei voluto varcare quella porta sempre aperta. Non l’ho fatto, eppure gli anni erano quelli in cui giravo l’Italia per conoscere pittori e scrittori. Di Goliarda mi aveva colpito il primo libro che avevo letto “Lettera aperta”, successivamente ne ho letti altri come “L’universo di Rebibbia” e “Destino coatto” due libri che parlano della sua detenzione nel carcere. La sua scrittura è limpida, vera ti arriva al cuore. Ho invidiato la sua libertà. Che significa essere liberi? Credo che significhi vivere i propri sentimenti, descrivendoli per come sono senza tanti fronzoli, aggiustarli, modificarli e farli sembrare altro, ma impegnarsi in questo può risultare un disagio, un vero e proprio castigo che ti può annientare, demolire, avvelenare il sangue e viaggiare nel mondo dell’indifferenza di chi non è preparato a prestare attenzione al grido di libertà. Un prezzo da pagare, quel prezzo che solo i grandi riescono a sborsare senza bruciarsi. Goliarda ha avuto la forza di resistere, di rimanere libera, pura nel suo modo di essere, ha osato scrivere quello che vedeva, che sentiva e per questo è stata respinta, osteggiata, isolata, rifiutata da una critica ammuffita, paludata, arrogante che ha avuto paura della sua penna troppo libera ed imprevedibile per essere tenuta a bada. Goliarda ha vissuto la sua vita senza preoccuparsi del giudizio degli altri, senza paura degli scandali, non è rimasta invischiate nelle ragnatele tese da un mondo ancora troppo dominato dagli uomini e da regole assurde e opprimenti; è fuggita come una lepre dalla tagliola. Mi auguro che il silenzio che l’ha avvolta in vita possa sparire nel momento in cui ci impegniamo a rileggerla con attenzione e darle il giusto peso che merita e conviene a una donna che ha lottato e preteso il suo, ricompensandola di quel dolore silenzioso che l’ha accompagnata per difendersi dalle lacerazioni del genere umano. Brava Goliarda, tieni ancora la porta aperta, entreremo in tanti per farti compagnia e per leggere insieme quello che hai ancora nascosto nella cassapanca, inedito, mai pubblicato.
    “Il male sta nelle parole che la tradizione ha voluto assolute, nei significati snaturati che le parole continuano a rivestire. Mentiva la parola amore esattamente come la parola morte. Mentivano molte parole, mentivano quasi tutte. Ecco che cosa dovevo fare: studiare le parole esattamente come si studiano le piante, gli animali… e poi, ripulirle dalla muffa, liberarle dalle incrostazioni di secoli di tradizione, inventarne delle nuove, e soprattutto scartare per non servirsi più di quelle che l’uso quotidiano adopera con maggiore frequenza, le più marce, come: sublime, dovere, tradizione, abnegazione, umiltà, anima, pudore, cuore, eroismo, sentimento, pietà, sacrificio, rassegnazione.
    Imparai a leggere i libri in un altro modo. Man mano che incontravo una certa parola, un certo aggettivo, li tiravo fuori dal loro contesto e li analizzavo per vedere se si potevano usare nel “mio” contesto. In quel primo tentativo di individuare la bugia nascosta dietro parole anche per me suggestive, mi accorsi di quante di esse e quindi di quanti falsi concetti ero stata vittima.”
    (Goliarda Sapienza, L’arte della gioia)

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