giovedì 23 settembre 2010

Dale Zaccaria, recensione a Il salto della corda di Cetta Petrollo(Manni ed.2010)

Il salto della corda come il salto della vita.

di Dale Zaccaria

“Le parole di Cetta balzano sull’evidenza del foglio come una cascata di pietre-sillabe lucenti o come un grappolo succoso, senz’altro ordine o controllo se non quello rizomatico d’un istinto che scandendo conduce, nelle pieghe d’un cuore-messo-a-nudo e ad ogni istante tutto da scoprire.

Non è pura passione della pagina, alcunché di simile (a scrutarne la sostanza) all’esercizio d’una prosa d’arte, ché nulla si cristallizza qui (nulla può cristallizzarsi) per offrirsi come il cesellato frutto d’un operare.” Tommaso Ottonieri

Un ape operosa, come la piccola “ape furibonda” uno dei tanti versi con cui amava descriversi Alda Merini, o una “Diana folle, invitta cacciatrice” per usare altre strofe della nostra amata poetessa.

Furibonda nella parola, Invitta cacciatrice di poesia e di vita. Così le parole di Cetta Petrollo sono parole scolpite con grazia con cura e passione come nel suo Corpo Glorioso “quando si cura la vita non si può pensare ad altro”. E sono appunto parole-vita, parole domestiche, parole conosciute, parole di sua madre Rosalia che ha “il corpo ancora liscio come quello di una ragazza”. E’ la parola Femmina quella rivestita, annusata in un “letto berbero” con le sue “piazze assolate, l’odore del tiglio e della carota” è la parola della “libertà dei papaveri” di un “vestito rosso” indossato “per fare un gioco da ragazzi”- “come se fossi una trentenne”.

E’ la parola stesa nella “domenica” “dove mi chiudo in cucina e tiro le tagliatelle” la parola usuale quella di tutti i giorni ma “baluardo contro le tempeste, difesa contro le sirene, scogliera durissima e inattaccabile della femminilità”.

E’ la parola del salto della corda, come il salto della vita, in cui Cetta Petrollo sta sempre un po’ più in là, in quel “fermo invito, che mi offre mia madre”, perché infondo- dice- nella prosa Capire : “ecco non c’è più protezione. Dalla morte siamo buttate fuori come in una diversa nascita”.

E in questa diversa nascita allora si cerca un “Noi” perché “sarebbe come dire che non c’è stato un io perché l’io si è chiuso nella panna montata della vita vissuta, cresciuta su di sé come un’escrescenza incontrollabile, fuori progetto, fuori programma”.

E’ questo fuori infondo è l’essere dentro. E’ il salto della corda appunto che batte e ribatte come il salto della vita, con il suo inizio e la sua fine, i suoi dubbi e le sue atrocità, e di fronte a questo Cetta Petrollo preferisce “giocare”, addomesticarla la vita, stenderla dentro casa con quel “matterello-timone” “che è anche quello dei mie affetti, casa che mi consente di governarmi e di governare” e in quella casa c’è insieme a lei il capitano-poeta, Elio Pagliarani, la credenza arancione di sua madre dove riposare e rovistare le parole, e fuori dalla finestra, c’è un ragazzo di colore che salta la corda:

“Quando annaffio i fiori la sera, di fronte, nel viale, c’è un ragazzo di colore che salta la corda.

Non me ne accorgo subito, infatti sono concentrata sulle rose, sui gelsomini, che stanno fiorendo, sui ciclamini che insistono a non morire, sulle margherite gialle africane, che resistono a tutto, sulle piantine grasse che si espandono e si allungano faticosamente sul terrazzino. Non me ne accorgo subito attenta come sono a non far cadere troppa acqua sulla strada, a non far corrente in casa, a non bagnarmi, a non fare rumore. Però è il rumore, il battito insistente della corda sul selciato, a farmi alzare gli occhi, e a vederlo, alto, elegante e nero, proteso senza vergogna, nella solitudine serale della città, in un gioco da bambini(…)

Avrei potuto avere una vita così. Uno stacco, un’allegria, molta curiosità.

Ma non è importante che io, proprio così, non l’abbia vissuta la mia vita (…)

L’importante è che lui in questo momento esista e salti la corda mentre io annaffio i fiori e nello sguardo siamo necessari tutte e due. Ognuno nel suo pezzetto di miracoloso equilibrio.

Acqua sorgiva. Acqua sorgiva”.

sabato 11 settembre 2010

Da Favole 2010


Amanti



Una volta, un po’ di tempo fa, il tempo appunto che, ti dicevo qualche favola fa, si puliva il riso e si pulivano le lenticchie e sul tavolo di marmo della cucina insieme al riso e alle lenticchie si facevano gli gnocchi che ora gli gnocchi li fa Rana e domani quando cucinerai chissà chi li farà e dove li cuoceremo e chi li mangerà e se ce li mangeremo ancora, e una volta quando il tavolo era davanti alla finestra, quella volta che dalle finestre cantavano le donne ma non di pomeriggio perché tutti dormivano era come se di pomeriggio alle due e mezza, le tre, non lavorasse nessuno, ma nemmeno alle quattro o alle cinque, insomma, quella volta lì, se una signora attraversava un cortile silenzioso con passo calmo, tacchi, i tacchi di cui parlavamo qualche favola fa, la borsetta in mano, una scia di profumo che si avvertiva, si immaginava, fin su, fino alle finestre alte sul cortile, ecco quella signora si diceva, si bisbigliava, quella signora, sposata, si capisce, aveva un amante.
L’amante, quella volta lì, si immaginava, prima dei libri di D'Annunzio e di Moravia, prima della prima comunione, della confessione, dei borbottii del sesso, l’amante si immaginava, mentre la signora attraversava il cortile e avere un amante era come avere un gioiello in più, una libertà appunto fuori dal cortile che la signora lasciava, mentre noi si puliva il riso, si contavano con le dita le lenticchie,e lasciava e lasciava, nell’immaginazione, girando l’angolo svelta, con una gonna appena un po’ troppo stretta, l’aria un po’ troppo svagata, distratta, riservata.
Poteva l’amante regalare rose? Magari rosse come quel fioraio perfetto dove non si entrava mai, rose dallo stelo lungo, e carnose e erette, come non fossero fiori ma gioielli da regalare, accurati gioielli, studiati per la vetrina che si allungava vicino alla pasticceria lungo il viale? Certo l’amante regalava rose e forse anche cioccolatine, un di più di cioccolata quando non era né Pasqua né Natale né compleanno né domenica, l’amante regalava rose fuori dal cortile e dal buio delle case, in certe passeggiate mai viste, solo intraviste in certi angoli di città poco frequentati e costosi.
E così una volta c’era l’amante, l’amante che poi voleva dire la donna, che poi voleva dire quella che usciva alle cinque del pomeriggio, la sottoveste di seta, il reggicalze, la calza di seta lucida, la scarpa di vitello nero equilibrata fra punta e decolté, l’amante che voleva dire albergo, che voleva dire peccato, che voleva dire come quella canzone di una che non ricordo il nome,che si spegneva la radio quando cantava, non si sa mai i bambini…, tua, sono ancora tua, fra le braccia tue, così…
L’amante, l’amante.
Una scia appiccicosa a pensarci bene, pesante come le pastarelle domenicali, come il messale dalla copertina nera, come il pizzo nero sulla testa e i guanti fino al gomito.
L’amante. L’amante.