sabato 11 settembre 2010

Da Favole 2010


Amanti



Una volta, un po’ di tempo fa, il tempo appunto che, ti dicevo qualche favola fa, si puliva il riso e si pulivano le lenticchie e sul tavolo di marmo della cucina insieme al riso e alle lenticchie si facevano gli gnocchi che ora gli gnocchi li fa Rana e domani quando cucinerai chissà chi li farà e dove li cuoceremo e chi li mangerà e se ce li mangeremo ancora, e una volta quando il tavolo era davanti alla finestra, quella volta che dalle finestre cantavano le donne ma non di pomeriggio perché tutti dormivano era come se di pomeriggio alle due e mezza, le tre, non lavorasse nessuno, ma nemmeno alle quattro o alle cinque, insomma, quella volta lì, se una signora attraversava un cortile silenzioso con passo calmo, tacchi, i tacchi di cui parlavamo qualche favola fa, la borsetta in mano, una scia di profumo che si avvertiva, si immaginava, fin su, fino alle finestre alte sul cortile, ecco quella signora si diceva, si bisbigliava, quella signora, sposata, si capisce, aveva un amante.
L’amante, quella volta lì, si immaginava, prima dei libri di D'Annunzio e di Moravia, prima della prima comunione, della confessione, dei borbottii del sesso, l’amante si immaginava, mentre la signora attraversava il cortile e avere un amante era come avere un gioiello in più, una libertà appunto fuori dal cortile che la signora lasciava, mentre noi si puliva il riso, si contavano con le dita le lenticchie,e lasciava e lasciava, nell’immaginazione, girando l’angolo svelta, con una gonna appena un po’ troppo stretta, l’aria un po’ troppo svagata, distratta, riservata.
Poteva l’amante regalare rose? Magari rosse come quel fioraio perfetto dove non si entrava mai, rose dallo stelo lungo, e carnose e erette, come non fossero fiori ma gioielli da regalare, accurati gioielli, studiati per la vetrina che si allungava vicino alla pasticceria lungo il viale? Certo l’amante regalava rose e forse anche cioccolatine, un di più di cioccolata quando non era né Pasqua né Natale né compleanno né domenica, l’amante regalava rose fuori dal cortile e dal buio delle case, in certe passeggiate mai viste, solo intraviste in certi angoli di città poco frequentati e costosi.
E così una volta c’era l’amante, l’amante che poi voleva dire la donna, che poi voleva dire quella che usciva alle cinque del pomeriggio, la sottoveste di seta, il reggicalze, la calza di seta lucida, la scarpa di vitello nero equilibrata fra punta e decolté, l’amante che voleva dire albergo, che voleva dire peccato, che voleva dire come quella canzone di una che non ricordo il nome,che si spegneva la radio quando cantava, non si sa mai i bambini…, tua, sono ancora tua, fra le braccia tue, così…
L’amante, l’amante.
Una scia appiccicosa a pensarci bene, pesante come le pastarelle domenicali, come il messale dalla copertina nera, come il pizzo nero sulla testa e i guanti fino al gomito.
L’amante. L’amante.

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